A Capitignano rivive il rito collettivo delle cacchiette, tradizione figlia della transumanza

CAPITIGNANO – Una tradizione figlia della transumanza, che per secoli ha favorito scambi tra Abruzzo e Puglia, tramandata oralmente tra le famiglie e di generazione in generazione. È quella delle cacchiette, che a Capitignano (L’Aquila) ancora oggi si celebra il 6 dicembre, giorno in cui ricorre la morte di San Nicola di Bari.
Un autentico rito collettivo, di cui peraltro ciascuna delle sei frazioni è particolarmente gelosa tanto da non condividerla con i paesi accanto, che rischiava di scomparire se l’Ordine di Capitnoius non l’avesse recuperato e fatto tornare in auge.
“Ogni anno, il 6 dicembre, proprio come una volta i bambini girano per il paese, casa per casa, formulando la frase ‘sia benedetta l’anima dei morti’. Chi si trova ad aprire la porta offre in dono una cacchietta, che non è altro che una piccola pagnotta di pane, la cui realizzazione prevede però una procedura complessa, lunga quattro giorni”, racconta Ginevra Ventura, dell’associazione costituita nel 2015 da un gruppo di giovani che promuove iniziative per valorizzare il paese.
Panicelli – realizzati con un miscuglio di farine di solina, saragolla, doppio zero e cruschello, acqua, lievito madre, sale, zucchero e patate lesse – che devono il loro nome a quello con cui qui si identifica il pane nel dialetto locale, cacchio, che oggi sono rimasti in pochi a realizzare, in particolare anziane signore che li condividono appunto coi più giovani. Dismessi i tre forni comuni, oggi vengono utilizzati forni privati per la cottura, che comunque resta un rito collettivo, accogliendo i panicelli di più famiglie.
“La preparazione inizia con la riattivazione del lievito madre”, spiega Ginevra, “l’indomani avviene la messitura, al lievito sciolto con l’acqua viene aggiunta la patata lessa, un po’ di zucchero e una spolverata di farina, imprimendo una croce sull’impasto si invocano San Martino e San Nicola affinché la lievitazione vada a buon fine. Il giorno dopo, vengono aggiunti farina, acqua e sale e l’impasto si lascia riposare per tre o quattro ore, prima di formare i panicelli che sono di circa 400 grammi l’uno. La cottura avviene nel forno a legna”.
Tradizioni su cui puntare per la valorizzazione di un territorio in cerca di vocazione, dopo la fine della florida stagione dell’edilizia, tra gli anni Ottanta e Novanta, e della, ormai remota, estrazione della torba dall’area di Campotosto. A questo lavora Te.Co-Territorio e comunità, che col sociologo Alessandro Chiappanuvoli negli ultimi due anni ha svolto un percorso partecipato per individuare, proprio assieme alla popolazione, la direzione migliore da intraprendere ribaltando un paradigma: si è partiti dal basso, analizzando bisogni e desideri, ricostruendo un senso di comunità, prima di promuovere campagne o eventi. Un processo che ha visto il riattivarsi di relazioni e il conseguimento dei primi obiettivi, come il riconoscimento del Presidio Slow Food per la pastinaca, radice con proprietà nutrienti simili alla patata.
Di tutto questo si è parlato domenica, in occasione di “Gustare Capitignano”, una giornata che nell’ambito del progetto Esploratori con gusto sostenuto dal Parco nazionale del Gran Sasso e dei monti della Laga, attraverso degustazioni e laboratori ha avvicinato un folto gruppo di curiosi alle tradizioni e ai prodotti locali, come il miele che è stato protagonista della colazione.
A Capitignano, oltre a numerosi hobbisti, ci sono quattro aziende apistiche, anche se quasi per nessuno questa è la principale fonte di reddito. “L’apicoltura esiste dall’Ottocento ma negli ultimi dieci anni ha conosciuto un grande sviluppo”, racconta Laura Ulisse (nella foto sotto), che assieme al compagno porta avanti Mopolino Apicoltura. Le produzioni, sia di millefiori che di monovarietali, fanno i conti coi cambiamenti climatici e le altitudini, tutte sopra i 900 metri. (m.sig.)
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