LE RESE PER ETTARO DIVIDIONO IL MONDO DEL VINO ABRUZZESE: “DOC E TAVOLA MONDI DIVERSI, MA…”

PESCARA – Sta facendo molto discutere l’ipotesi di aumentare le rese per ettaro dei vigneti da cui si produce vino da tavola in Abruzzo, che appare contraddittoria rispetto alla strada intrapresa orientata ad ottenere un aumento di valore a scapito dei volumi e che arriva ad appena due mesi dall’adozione del cosiddetto bloccaggio proprio perché nelle cantine ci sono grandi quantità di vino invenduto.
Quello dei vini sfusi e quello dei vini a denominazione sono due mondi diversi, è vero, come fanno notare molti addetti ai lavori, ma la questione fa tornare prepotentemente di attualità l’atavico problema della quantità di vino abruzzese imbottigliato fuori regione.
“Il vino a denominazione rappresenta meno della metà dei 3,5 milioni di ettolitri prodotti in Abruzzo, la riduzione della resa per ettaro delle uve destinate al vino da tavola può andar bene purché sia applicato anche nelle altre regioni!”, dice l’enologo Gianni Pasquale, per il quale “il vero problema dell’Abruzzo è che continua a produrre vino da tavola e a farlo imbottigliare fuori regione”.
“A livello concettuale c’è una vera discrasia” tra la direzione intrapresa da Regione e Consorzio orientata ad un aumento di valore a scapito dei volumi e l’aumento delle rese per le uve generiche, ammette Pasquale, “ma ci sono molti che producono solo vini da tavola e non doc, quindi perché devono essere penalizzati solo perché non si riesce a governare il prodotto a denominazione?”.
“Se non iniziamo a pensare che il vino lo dobbiamo imbottigliare in regione non cambieranno le cose. Hanno ragione tutti, chi vuole la qualità e chi vuole aumentare le rese. Ma lo Stato aveva dato questa deroga, perché rinunciarci?”, si domanda Pasquale, che da presidente di Assoenologi precisa di parlare come consulente di Cantina Frentana e non a nome dell’associazione dei professionisti.
“Con il vino da tavola a 30 euro al quintale, riducendo la resa a 300 quintali per ettaro si ridurrebbe il fatturato del 25 per cento. Mi può star bene ma perché nelle altre regioni possono continuare a farlo? Per me l’unico problema è questo”, evidenzia l’enologo.
“È un problema politico che il mondo della cooperazione non ha saputo affrontare perché è divisa” ragiona Pasquale, per il quale quella dell’aumento delle rese “sicuramente è un’esigenza che viene dalla cooperazione in un momento di crisi di settore e concorrenza così forte di regioni che si avvalgono ancora di questa misura”.
Per l’enologo “andrebbe messo un limite a 300 quintali per tutta Italia. Nessuno può dire che è a favore dei 400 quintali, ma nel momento in cui soffriamo la concorrenza di regioni molto più produttive come Emilia Romagna o Puglia, c’è chi potrebbe dire perché altri sì e noi no? Non si capisce perché rinunciare ad una possibilità che ci è stata data”, aggiunge ricordando come l’Abruzzo sia stata l’unica regione ad avere in un primo momento rinunciato alla deroga che ha permesso alle regioni più produttive (Sicilia, Puglia, Veneto ed Emilia Romagna) di portare le rese da 300 a 400 quintali per ettaro.
“L’auspicio”, conclude, “è che le regole della partita siano le stesse per tutti”.
“Siamo alle solite, in Abruzzo abbiamo due anime diverse che non riescono ad andare d’accordo e a dialogare, è disarmante”, dice il collega Carmine De Iure, consulente di aziende di grandi dimensioni come di piccole.
“Nelle grandi realtà, in cui con il nostro sistema di coltivazione in piena produzione raggiungiamo i 350 quintali per ettaro”, spiega l’enologo, “se si producesse di meno si perderebbe quella freschezza e si avrebbe meno concentrazione sia alcolica che estrattiva che non è desiderata dal mercato dei grandi volumi”. Si finirebbe, insomma, “per avere caratteristiche organolettiche non accettate dai clienti e quindi un reddito inferiore”.
“Bisogna venirsi incontro”, taglia corto De Iure, “so che il piccolo produttore fa fatica perché ha un’azienda completa ed è dura da portare avanti, ma se lavora bene ha un valore aggiunto e la capacità di stare sul mercato, mentre il socio di cantina sociale ha dei margini molto ristretti quindi se gli si priva di un’altra fetta diventa difficile. Produrre meno e alzare il valore medio? Sì, ma non si fa in quattro e quattr’otto e soprattutto andrebbe fatto in modo unitario dal punto di vista nazionale. Se noi abruzzesi riduciamo le rese ma non lo fanno Puglia, Veneto ed Emilia Romagna, allora noi come possiamo fare i virtuosi?”.
Quello della produzione di vini a denominazione e da tavola “sono due mondi diversi”, ribadisce l’enologo. “È stata compiuta un’azione ben precisa nel respingere la deroga che forse non è stata ben ponderata considerando che le altre regioni non l’hanno applicata”.
“Se il piccolo produttore ha successo e finisce il suo vino, può bussare e lo trova anche di qualità, quindi bisognerebbe anche essere più cauti”, aggiunge, facendo notare come se anche l’Abruzzo riducesse del 25 per cento la produzione del vino da tavola, questo “non inciderebbe sul volume globale di vino, mentre i prezzi non saranno ricompensati e assisteremo a dei conferitori che saranno costretti sempre più a soffrire e magari anche ad estirpare”.
Anche secondo l’enologo Romeo Taraborrelli, che non rilascia dichiarazioni ma ha inviato una striminzita nota alla redazione, rinunciando all’aumento delle rese si rischia di “depauperare il bellissimo paesaggio di vigneti, depauperare le tasche dei viticoltori abruzzesi, non garantendo loro le giuste remunerazioni e al contempo auto-penalizzarci rispetto a produttori di altre regioni”. (m.sig.)
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