SOVRANITÀ ALIMENTARE: FORSE È LA VOLTA BUONA PER UN’AGRICOLTURA DELLE PRODUZIONI E NON DELLE SPECULAZIONI?

L’AQUILA – Ha cambiato nome affiancando all’agricoltura il termine sovranità alimentare e ha fatto saltare dalla sedia molti che l’hanno confusa con il sovranismo se non, addirittura, con l’autarchia. Ma quella a cui si richiama la nuova denominazione del Ministero da oggi guidato da Francesco Lollobrigida di Fratelli d’Italia, ha un significato profondamente diverso e radici culturali piuttosto lontane da quelle del nuovo governo.
Lanciato per la prima volta dal movimento internazionale “Via Campesina” (dallo spagnolo, la via dei contadini), organizzazione internazionale di agricoltori fondata nel 1993 in Belgio per coordinare “le organizzazioni contadine dei piccoli e medi produttori, dei lavoratori agricoli, delle donne rurali e delle comunità indigene dell’Asia, dell’Africa, dell’America e dell’Europa”, il concetto di sovranità alimentare nasce infatti per combattere le diseguaglianze e come proposta alternativa al modello neo-liberale del processo di globalizzazione delle imprese.
E non è un caso che Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, già nel luglio scorso denunciava che “c’è il progressivo abbandono della sovranità alimentare, una scelta compiuta e sostenuta da tutti i Paesi del primo mondo, nel corso della cosiddetta Rivoluzione Verde: pur di ottenere raccolti abbondanti senza pensieri, abbiamo consegnato le chiavi dell’alimentazione ai colossi della chimica, che oggi smerciano i semi più diffusi al mondo e al contempo producono i pesticidi. Ma i prezzi di quelle licenze non si potevano reggere, e così si è semplicemente smesso di coltivare”.
In buona sostanza, la sovranità alimentare nasce per difendere il diritto di ogni Paese a stabilire le proprie politiche alimentari, l’indirizzo di produzione, distribuzione e di consumo del cibo. Politiche che possano rispondere alle esigenze interne e garantire un cibo sano e sostenibile a tutti.
Un diritto che rischiamo di perdere, oggi più che mai – denuncia Slow Food – . Tanto che con la guerra alle porte d’Europa, proprio in quei Paesi culla dell’agricoltura, i blocchi del grano hanno avviato una crisi alimentare che non conoscevamo da anni. E intanto qui in Italia, siamo disposti a pagare oro quel grano che non coltiviamo più perché negli ultimi trent’anni non abbiamo voluto aumentare il compenso dei nostri contadini.
Per questo le critiche mosse al cambio di denominazione del Mipaaf devono lasciare perplessi, considerando pure che un terzo del bilancio dell’Unione europea è destinato all’ormai nota Pac (politica agricola comunitaria).
“Se alle parole conseguiranno i fatti sarà una cosa buona”, ammette a Virtù Quotidiane Nunzio Marcelli, imprenditore agricolo, tra i fautori del riconoscimento dell’Igp Agnello del Centro Italia e della creazione della rete Appia che unisce i pastori di tutta Italia. “Oggi siamo nell’epoca in cui la parola ha la sua importanza in termini di condizionamento dei consensi e in cui purtroppo raramente la memoria assiste coloro i quali sono destinatari delle parole. Le parole dette in un determinato momento hanno una loro efficacia, ma poi si passa ad un’emozione successiva e si dimenticano, questo consente a tante forze politiche di avere più o meno consenso a seconda della capacità di usare le parole come forma di persuasione”.
Noto come uno che non le manda a dire, Marcelli ricorda come un’occasione mancata, a proposito di sovranità, anche il disciplinare dell’arrosticino che prevede carni straniere, e va subito al punto: “Con tutti i governi c’è stato un sistematico abbandono del concetto di sovranità alimentare, se si pensa anche al fatto che l’Unione europea non eroga più gli ingenti fondi per sostenere le produzioni, ma per garantire delle rendite che si sono poi trasformate in speculazioni finanziarie, vedi la cosiddetta mafia dei pascoli in cui non è importante produrre ma è sufficiente il possesso di qualche somaro non certo per fini produttivi”.
“Quelli che sono stati i provvedimenti messi in atto proprio dalle destre”, rileva Marcelli, “non sempre hanno lasciato intendere che erano per un’agricoltura di piccola dimensione. La politica che è stata attuata per le aree interne che ha portato all’abbandono di produzioni alimentari a basso impatto a vantaggio dell’economia di scala, ha determinato oltre all’abbandono, anche una perdita della capacità di sopravvivenza”.
“Durante la seconda guerra mondiale”, ricorda l’imprenditore, “la capacità di resilienza delle popolazioni montane durante l’occupazione tedesca è stata elevatissima, oggi basterebbe il 10 per cento di quelle difficoltà per morire tutti di denutrizione!”.
“L’agricoltura”, accusa infine Marcelli, “è servita semplicemente per garantire uno stipendificio e per diversi decenni ha occupato migliaia di persone, in enti retaggio del Ventennio, alle quali non è stato dato adeguato costrutto. Nella Prima Repubblica un ente come l’Agenzia regionale Arssa ha avuto fino a 800 dipendenti: il risultato non è certo stato produttivo, è sotto gli occhi di tutti”. (m.sig.)
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