SULLE MONTAGNE DI LUCOLI SCOPERTO UN ANTICO VITIGNO SARDO, A MILLE METRI NASCE IL VIGNETO PIÙ ALTO D’ABRUZZO

LUCOLI – Non si sa esattamente se si avvicini più alla storia o alla leggenda, ma potrebbe darsi che siano stati dei pastori abruzzesi, che in epoca remota si recarono in Sardegna per apprendere o trasmettere come realizzare il formaggio pecorino, a riportare quelle barbatelle, fatto sta che a Lucoli (L’Aquila), a quota mille metri, in una località che forse non a caso si chiama Le Vignole, sono state ritrovate delle viti di semidano, vitigno a bacca bianca tipico dell’isola.
La passione per il vino di Francesco D’Asaro, architetto romano che ha acquistato un rudere dove, durante la prima ristrutturazione, ha scoperto una vasca anticamente utilizzata per la produzione di vino, e l’incontro con Paolo Simoni della cantina Castelsimoni, hanno fatto il resto: il 2023 dovrebbe essere l’anno della prima vendemmia per questo vigneto che molto probabilmente si attesta come il più alto d’Abruzzo.
“Trovandosi a quota così alta alcuni hanno scoraggiato Francesco, mentre noi abbiamo subito capito le potenzialità del sito”, racconta Paolo, geologo e agronomo che si definisce vignaiolo indipendente, e che insieme a Manuela Castellani una decina d’anni fa ha dato vita all’azienda Castelsimoni producendo vini di montagna a Cese di Preturo, alle porte dell’Aquila, dove nessuno avrebbe mai impiantato neanche una barbatella.
“A Lucoli abbiamo una pendenza importante, di circa il 70 per cento”, spiega, “una esposizione ad anfiteatro e a mezzogiorno, un terreno sabbioso con matrice limosa”.
“Ancora non avevamo deciso cosa impiantare, quando abbiamo iniziato a ripristinare dei gradoni per terrazzare il terreno scosceso e sono spuntate delle viti sotto terra, le abbiamo fatte analizzare e abbiamo scoperto che si trattava del pugnitello, autoctono toscano che secondo alcuni è un clone di montepulciano, e il semidano, che ad oggi resiste in appena venti ettari sull’isola”.
Piante che, si presume, “di era pre-fillossera” dal momento che non abbiamo trovato nessun innesto. Anche se potrebbero anche essere viti che erano innestate e poi, negli anni, si sono riprodotte da sole”.
“Abbiamo realizzato un piccolo impianto sperimentale, con 7-800 piante di cui la metà circa a piede franco, ma solo un centinaio di queste ultime hanno resistito”, dice Simoni. “Ho suggerito di affiancare del pinot nero, che per le caratteristiche del terreno e l’altitudine dovrebbe venire più strutturato rispetto al nostro”.
Nel frattempo, lo scorso anno è stato acquisito un altro lotto di terreno, più in basso. Alcuni antichi documenti ritrovati da D’Asaro testimonierebbero la presenza di vigne in quest’area sin dal Rinascimento. “La viticoltura estrema richiede un vitigno nobile”, riflette Simoni, “perciò ho suggerito di impiantare del riesling renano”.
Nella prossima vendemmia, secondo le aspettative dei due, si dovrebbero raccogliere sia il semidano che il pinot nero che saranno vinificati nella cantina di Castelsimoni.
“La pandemia è stata anche un’occasione di riflessione, di riappropriazione di valori e di scoperte di nuovi, o antichi, ordini di grandezze, tra cui il rapporto con la terra e la natura in una diversa dimensione esistenziale”, racconta D’Asaro, proprietario dei terreni. “Le Vignole le possedevo da quarant’anni, ma non avevo mai pensato cosa potesse rivelare quel toponimo di cui solo gli anziani della valle avevano un’immagine”.
“Ho aperto, quasi involontariamente, uno scrigno di preziose testimonianze di incroci e di scambi socio culturali: in poco meno di un ettaro di primo impianto”, spiega, “ho rinvenuto 7 varietà diverse di vitigni ognuna con la sua storia ultracentenaria di rapporti extraregionali. Un palinsesto di rapporti e di vini: il semidano sardo, il pugnitello, la malvasia bianca lunga, il trebbiano toscano, l’arsilico laziale, il bombino pugliese e la vesparola delle Marche”.
“Ogni vitigno ancor oggi vivo e vitale testimonia di transumanze, terremoti, rapporti di potere e di appartenenze per un arco di tempo di oltre tre secoli, in un territorio in cui il più antico seme ancora visibile è la vicinissima Abbazia benedettina di San Giovanni, tappa del cammino di San Benedetto (VI secolo d.C.) in Abruzzo”, ricorda D’Asaro.
“Studiando, poi”, aggiunge, “mentre il primo impianto di semidano e pinot nero attecchiva prodigiosamente, ho ritrovato documenti dell’884 e del 1077 attestanti l’esistenza di vigneti sopra il nucleo di Collimento di Lucoli, esattamente ‘Le Vignole’. Anche la tipologia d’impianto a gradoni è attestata dagli antichi catasti sin dal 1450”.
“Quindi, non un miscuglio casuale, ma uno straordinario palinsesto di vite e viti selezionate da un luogo straordinario a 1.000 metri, tra il calcare dominante, sabbioso-argilloso che dona una impronta e a predisporre una base per rinnovare la storia”, dice.
Non resta che aspettare: i mutamenti climatici, peraltro, non suggeriscono altro che l’innalzamento del livello dove impiantare. (m.sig.)
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