LA STORIA DELL’ITALIA UNITA, UNIFICAZIONE ED ECONOMIA NEL LIBRO DI ENRICO FAGNANO

PESCARA – Cosa accadde nel Meridione dopo il 1860 con particolare riguardo alle conseguenze economiche dell’unificazione. Ruota attorno alle vicende avvenute nel sud, La Storia dell’Italia Unita, il libro edito da Amazon, opera di Enrico Fagnano, scrittore e organizzatore culturale, creatore e direttore di numerose riviste letterarie.
Nel suo libro, Fagnano sostiene che se l’Italia nel Novecento è diventata uno dei paesi più industrializzati al mondo, fu il sesto attorno al 1920 a poter essere definito in questo modo, lo deve al contributo determinante del sud.
“Le sue ricchezze hanno consentito la nascita della grande industria nazionale, concentrata nel nord, i suoi consumi hanno dato la possibilità alle imprese settentrionali di crescere e, infine, sono state le rimesse dei suoi emigranti, che hanno permesso a queste imprese di consolidarsi, per poi affrontare i mercati internazionali senza restarne schiacciate – spiega l’autore a Virtù Quotidiane -. La parte più progredita del Paese finalmente unito deve molto al Meridione e ai Meridionali”.
Nelle 198 pagine, attraverso 12 capitoli, l’autore si concentra sugli aspetti economici, ma non tralascia i risvolti più cruenti, legati alla rivolta popolare, il cosiddetto brigantaggio.
Dopo l’annessione cominciò un trasferimento di risorse verso il nord, che fu massiccio e riguardò tutti i settori.
Le tappe fondamentali di questo processo furono la vendita dei terreni demaniali, iniziata nel 1862, la vendita dei terreni ecclesiastici, iniziata nel 1867, la legge del 1866 sul corso forzoso, la legge del 1887 sui dazi doganali e infine l’utilizzo delle rimesse degli emigrati.
“I terreni demaniali, che erano esclusivamente nel sud, e i terreni della Chiesa, che erano quasi esclusivamente nel sud, fruttarono rispettivamente 300 e 620 milioni, che furono utilizzati in parte per fronteggiare l’enorme debito pubblico del nuovo Stato, ereditato dal Regno di Sardegna, e in parte per finanziare gli sventramenti di Firenze e di Roma, diventata finalmente la capitale d’Italia – anticipa l’autore – . Enormi vantaggi, poi, furono assicurati all’economia piemontese con la legge sul corso forzoso del 1866, con la quale si stabilì che le vecchie monete d’argento del Banco di Napoli (pari a ben 443 milioni) potevano essere cambiate nelle nuove monete italiane di carta solo dalla torinese Banca Nazionale, garantendo così alla stessa un forte incremento delle proprie riserve di metallo prezioso e quindi di liquidità”.
La situazione nel sud, però, divenne realmente insostenibile dopo il 1887, quando venne approvata una legge che introduceva pesanti dazi sui prodotti industriali provenienti dall’estero. Grazie alle nuove tariffe protezionistiche le imprese italiane (del nord) non dovevano più sopportare la concorrenza straniera, ma la conseguenza fu che l’agricoltura meridionale perse la maggior parte dei sui mercati. Fu solo allora che nel Meridione cominciò la vera emigrazione, quella che nell’immaginario collettivo viene vista come un esodo. Dagli ultimi anni dell’Ottocento fino al 1914, quando con lo scoppio della guerra mondiale si interruppero tutti i flussi migratori, furono più di 4 milioni i cittadini del sud che partirono (dei quali quasi 1.000.000 dalla Campania e addirittura più di 1.100.000 dalla Sicilia).
“Gli emigrati, infatti, inviavano in patria i loro risparmi, le famose rimesse, che in buona parte finivano nelle casse postali – continua Fagnano – . Queste alimentavano la Cassa depositi e prestiti, che concedeva mutui ai comuni per la costruzione di opere pubbliche e per l’istituzione di scuole. E i comuni che potevano permettersi di indebitarsi all’epoca erano quasi esclusivamente quelli settentrionali. Altra parte delle rimesse veniva investita, invece, nei Buoni del Tesoro, offerti dallo Stato con interessi allettanti, con i quali si finanziavano le industrie, tutte oramai comprese nel cosiddetto triangolo industriale, ovvero tra Torino, Genova e Milano. Le somme che arrivavano dall’estero erano ingenti e dai circa 200 milioni del 1900, si passò ai 300 di media tra il 1901 e il 1905 e ai quasi 500 di media per il quinquennio successivo, per arrivare addirittura ai circa 700 milioni del 1913”.
“In conclusione, se l’Italia nel Novecento è diventata uno dei paesi più industrializzati al mondo lo deve al sacrificio del sud – ribadisce lo scrittore -. Le sue ricchezze hanno consentito la nascita della grande industria nazionale, concentrata nel nord, i suoi consumi hanno dato la possibilità alle imprese settentrionali di crescere e, infine, sono state le rimesse dei suoi emigranti, che hanno permesso a queste imprese di consolidarsi, per poi affrontare i mercati internazionali senza restarne schiacciate”.
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