LA MADRE DI TUTTE LE COLAZIONI SI FA A PASQUA: DA NORD A SUD TRA DISMISURA E CONVIVIALITÀ

di ERNESTO DI RENZO*
L’AQUILA – La mattina della domenica di Resurrezione, devozione e consuetudini gastronomiche fanno della colazione pasquale un’esperienza di eccezionale valore culinario e simbolico. Dal Trentino alla Sicilia, passando per la Barbagia, la Maremma, le Langhe e il Gargano, all’interno delle famiglie più ossequiose dei codici della tradizione ci si riunisce attorno a tavoli lautamente imbanditi per celebrare la più importante ricorrenza del calendario liturgico cristiano.
Nell’occasione, caffè, cappuccini, cornetti, marmellate e fette biscottate cedono timidamente il posto a un campionario fantasioso di piatti e di ricette da degustare in conviviale lentezza e in abbondanza di porzioni che non conosce pari con altre celebrazioni dell’anno. Un’abbondanza, e una varietà di sapori, superiore perfino a quella del successivo pranzo che, di lì a qualche ora, verrà consumato al cospetto di lasagne, cannelloni, casoncelli, minestre maritate, agnelli, capretti, abbacchi, pronti a riempire molti stomaci già sazi dalla maratona della colazione precedente.
Il protocollo della festa, infatti, vuole che il breakfast di Pasqua venga consumato all’insegna dell’eccesso alimentare con lo scopo di far risaltare la solennità del giorno e di sottolineare la molteplicità di valori culturali, esistenziali e religiosi che gli appartengono, ma di cui non sempre si comprendono i significati.
Accanto ai valori, però, o dietro ai valori, come spesso accade c’è il cibo e il rito del mangiare. Un rito che nel caso di questa “domenica delle domeniche” prevede, anzi impone, dismisura, varietà, originalità; ma anche concordia, convivialità, scambio.
A garantire tutto ciò provvedono le differenti tradizioni geografiche e regionali che da città a città e da paese a paese arricchiscono il desco di svariate specialità gastronomiche che oscillano dal caldo al freddo, dal dolce al salato, dal fritto al grigliato, dal vegetale al carneo. Specialità che si traducono in portate e pietanze che vengono disposte contemporaneamente sulla tavola, offrendo l’immagine di un “ben di dio” alimentare di cui ogni convenuto può degustare senza limiti e senza regole di portata. Anzi, l’unica regola è quella di dover prendere “per devozione” tutto ciò che è stato apparecchiato, compreso il vino che per l’occasione conquista di diritto il posto del latte.
Ma cosa mangiano gli italiani la mattina di Pasqua? Darne un elenco esauriente è cosa impossibile, ma anche riassumerne i soli elementi salienti risulta essere un’operazione del tutto ardua, talmente numerose, creative e variegate sono le specialità che per questa circostanza vengono preparate con molti giorni d’anticipo, assecondando le tradizioni locali, le disponibilità stagionali e i simbolismi della festa alludenti alla vita, alla rinascita, alla fecondità.
Si va dalla pastiera napoletana al casatiello casertano, dai casciatelli molisani alla corallina laziale, dalla fugassa veneta alla pinza friulana, dalla scarcedda lucana alla pardulas sarda, dalla crescia brusca marchigiana al torco umbro, dalla cuddurauna siciliana alla sguta calabrese. Senza escludere le molteplici torte salate, fiocche, piconi, crostelli, pigne, pizze cresciute, pizze sbattute, gubane, resche, ciambelle strozzose che fanno da eccezionale comple(ta)mento alle classiche colombe e uova di cioccolato
L’Abruzzo non fa eccezione a questa tradizione gastronomica di antica data e, seppure con piccole varianti da territorio a territorio, prevede che la colazione pasquale venga consumata all’insegna dell’abbondanza di cibo e dell’esclusività di ricette. Ricette che associando il delicato al piccante, il friabile al croccante, il semplice all’elaborato, il crudo al cotto, fanno coesistere gli uni accanto agli altri i salami con i pecorini, i fiadoni con le uova sode, la coratella con le mazzarelle, le cicorie con i rustici, le pupe e i cavalli di pastafrolla con la rinomata frittata alla nepetella (Calmintha nepeta), una varietà di menta selvatica che proprio in questo periodo dell’anno inizia a fare la sua comparsa nei campi incolti.
Tutto ciò, volendo trovare delle ragioni che vadano al di là del semplice “è la tradizione”, si spiega con il fatto che l’atto del mangiare non ha mai rappresentato per l’uomo qualcosa destinato alla sola nutrizione, né tantomeno un’esperienza esclusivamente gastronomica. Per quanto sostentamento e piacere costituiscano infatti aspetti imprescindibili del rapporto con gli alimenti, l’uomo ha sempre attribuito al cibo significati diversi volti a soddisfare i bisogni dello spirito, dell’identità, dell’equilibrio psichico e dell’appagamento delle insicurezze.
La colazione di Pasqua ne è una prova inconfutabile. E se la collocazione della festa in rapporto al calendario liturgico fa sì che l’abbondanza del cibo preparato svolga una evidente funzione compensatoria e risarcitoria per il lungo digiuno quaresimale, la sua collocazione in rapporto al ciclo delle stagioni permette di assegnare alla stessa abbondanza la funzione di simbolo propiziatorio e benaugurante.
In pratica, in coincidenza di un momento molto cruciale del rinnovamento della natura e della rinascita primaverile, è come se mangiare insieme e nel segno dell’eccesso agisse nel garantire omeopaticamente e religiosamente tutte quelle aspettative di sicurezza psicologica, di benessere economico e di reciproca collaborazione di cui la società premoderna aveva necessario bisogno per mantenersi. E anche se la contemporaneità sembra poter fare a meno degli arcaici apparati ritualistici per perseguire gli stessi obiettivi di sicurezza e di benessere, le tradizioni e gli antichi simbolismi continuano a non cessare mai di fornire il loro scudo rassicurante dinanzi alle incognite del futuro e alle traversie dell’esistenza.
* docente di Antropologia dell’alimentazione all’Università di Teramo
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