Piatti e prodotti 07 Gen 2023 18:53

PATATA SESSANTA DEI MONTI PIZZI, UN DONO DEL TERRITORIO CHE TORNA A FIORIRE: “RICONQUISTA DI BIODIVERSITÀ, ATTRATTORE DI INTERESSE E RISORSA ECONOMICA PER IL TERRITORIO”

Patata sessanta monti Pizzi

MONTENERODOMO – La Patata Sessanta dei Monti Pizzi, tradizionale di montagna, è diversa da tutte le altre patate rosse. Buccia rossiccia, pasta bianca e compatta, rustica e fuori dagli standard, unica nella sua eccellenza tanto da essere iscritta all’anagrafe regionale della biodiversità vegetale e meritare un posto tutto suo nell’Arca del Gusto di Slow Food.

Coltivata sulla cresta dei Monti Pizzi, “terre tra le più nascoste d’Abruzzo” come scriveva Benedetto Croce, oggi parte più a sud del Parco nazionale della Maiella. Una varietà tardiva, coltivata in pieno campo senza irrigazione se non le provvidenziali piogge estive, perciò priva di umidità e di ottima conservazione d’inverno, il pane quotidiano per generazioni di montanari, una delle colture più praticate nelle vallate montane soprattutto dopo la carestia del 1817, un dono del territorio.

Perciò conservata gelosamente per il solo consumo famigliare da un’anziana donna di Montenerodomo (Chieti) nel suo campo in contrada Selvoni. Eredità raccolta dalla sua famiglia, Nicola e Franca Tamburrino, agricoltori custodi nel loro agriturismo in contrada Schiera. L’anziana, venuta a mancare negli anni scorsi, e la sua famiglia erano ribattizzati localmente “quisse de sessante” , da qui l’attribuzione del nome e tipizzazione della rarità a cura del Parco. Operazione che ha scongiurato il rischio di estinzione del prezioso tubero e aperto a nuovi futuribili scenari.

Una storia di tenacia e resistenza, una novità assoluta nel forziere di biodiversità vantato dalla Maiella geoparco Unesco. Un tesoro di natura tutelato dal progetto “Coltiviamo la diversità” mirato al recupero, studio e valorizzazione delle antiche varietà agricole del territorio.

Salvaguardia e rivalutazione attraverso il recupero del patrimonio genetico di frutti e piante alimentari autoctone ancora rintracciabili grazie ai pochi contadini rimasti sul territorio .

La collaborazione con gli agricoltori custodi, la conservazione dei semi nella Banca del germoplasma nella potenziata sede dell’Ente Parco a Lama dei Peligni (Chieti) oggi Centro di conservazione della biodiversità vegetale abruzzese in convenzione con Regione Abruzzo, insieme con i giardini botanici di Sant’Eufemia a Maiella (Pescara) e di Lama dei Peligni, rappresentano la moderna strategia per far fronte alla perdita di biodiversità, alla sfida climatica, allo spopolamento della montagna. La possibilità – l’ultima – di uno sviluppo sostenibile, salvifico.

Come già per il grano solina, il pomodoro a pera d’Abruzzo, l’oliva Intosso di Casoli, il peperone dolce di Altino, i vitigni di Nero Antico e Vedovella Nera di Pretalucente, è in dirittura d’arrivo il recupero della patata sessanta, del grano marzuolo a semina primaverile, di diverse varietà di mele, pere, fagioli. “Un patrimonio genetico di valore identitario straordinario in quanto espressione di un equilibrio sostenibile non ancora compromesso, la coevoluzione tra ambiente naturale e modalità di coltivazione proprie di chi vive in quei luoghi, un’armonia perfetta purtroppo oggi minacciata”.

Lo raccontano a Virtù Quotidiane l’etnobotanico e storico dell’agricoltura Aurelio Manzi, il direttore dell’Ente Parco Luciano Di Martino e il tecnico agronomo del Parco, Marco Di Santo, quest’ultimo testimone diretto del recupero in extremis della Patata Sessanta, ma non solo, in collaborazione con l’appassionato Manzi, autore di approfondimenti storici e culturali sull’argomento (“Maiella orientale, quando la geologia diventa mito”, “I progenitori delle piante coltivate in Italia”, “Cibo della memoria”).

“Non senza difficoltà” racconta Di Santo, ”abbiamo fatto capire alla famiglia di Nicola e Franca Tamburrino, agricoltori di Montenerodomo, l’utilità di conservare questo materiale. Con le università dell’Aquila e di Perugia abbiamo messo in comparazione scientifica quella patata da loro custodita con varietà moderne coltivate sugli stessi terreni di Montenerodomo. La scienza ci conferma che si tratta di una varietà a sé stante degna di essere conservata in purezza e tramandata”.

“Tutto questo non vuole essere una gara, è la diversità che va conservata” avverte il tecnico. “La differenza la fa l’ambiente, il terreno, la modalità di coltivazione. Le aziende zootecniche ancora presenti sul territorio forniscono letame a costo zero, un formidabile ammendante, migliora le caratteristiche del terreno che a sua volta trasferisce vita e qualità alla coltivazione”.

L’altitudine è sostanziale, la naturale vocazione del terreno, più fresco e meno alcalino che non in altre zone sulla Maiella, è il discrimine. Originaria delle Ande, la coltivazione della patata si esprime al meglio in altura, ne danno conferma anche gli scritti lasciati da nobili viaggiatori come il pittore inglese Edward Lear che, nell’Ottocento, giunto a monte della piana di Juvanum (sito archeologico) descriveva “interminabili campi di patate”.

Una risorsa economica, insiste Di Santo, per i paesi in quota sul comprensorio dei Pizii: Montenerodomo, Pizzoferrato (Chieti), Gamberale (Chieti) e seppur non ricompresa nei confini del Parco, Civitaluparella (Chieti) per omogeneità geografica, peraltro territorio dal quale storicamente sembra essere partita la diffusione della Patata Sessanta.

“Con la tipizzazione del prodotto” dice ancora Di Santo, “si punta anche ad allargare la comunità di coltivatori, attualmente quattro, invogliare i giovani a seminarle per incrementarne produzione e commercializzazione. Da settembre del prossimo anno potrà essere disponibile il nuovo raccolto”.

Resta però l’incognita del clima impazzito. “Se le condizioni climatiche cambiano sensibilmente tutto diventa più complicato” conferma l’agronomo, “in quota non serve irrigare, il terreno è reso fertile dalle piogge estive, così è sempre stato”.

“Nè”, rimarca, “avrà senso portare la coltivazione in altre zone geografiche o a quote più basse, la qualità delle produzioni non sarebbe la stessa”.

“È importante” conclude il direttore del Parco, Di Martino, “dare voce agli agricoltori e alle loro esigenze, perchè sono loro i veri attori protagonisti nella sfida della conservazione”.

LE FOTO

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