Personaggi 18 Mar 2025 11:41

Daniele Graziano e il suo approccio inclusivo con stile: “Vini e bollicine per tornare a parlare di cultura e territorio”

Daniele Graziano e il suo approccio inclusivo con stile: “Vini e bollicine per tornare a parlare di cultura e territorio”

ROMA – Prima che sommelier e comunicatore dell’anima riposta in ogni calice di vino, Daniele Graziano è umanista con attitudini “sinestetiche”, convinto che abbeverarsi ogni momento di bellezza e cultura sia il modo “per ritrovare la grazia perduta”. È quanto predica e pratica ogni minuto e momento in nome del suo metodo deduttivo che non precede, volutamente, l’analisi gustativa ma fonde in un tutt’uno “con un taglio diverso” il racconto della bellezza, dell’arte e dell’emozione del vino.

Partendo dai temi più stimolanti e disparati, dalle tele di Rothko alle note di Kind of blue di Miles Davis, dai precetti della Scuola medica salernitana al concetto di design applicato al vino, bollicine per l’esattezza (“perché la bollicina non esiste in natura, è un design progettato dall’uomo”), quelle di Biasiotto, una delle aziende rappresentate nei suoi per-corsi di avvicinamento al vino.

Salernitano, classe 1977, studi umanistici e qualifica in beni culturali, poco più che ventenne Graziano è entrato nel mondo della comunicazione, poi un master da executive manager lo ha illuminato.

“Ho capito che non era quello il mestiere che volevo fare”, racconta a Virtù Quotidiane , “ho maturato un progetto folle e semplice insieme che riuniva tutte le mie molte passioni, dove il vino era il driver perfetto, il collante di tutto: cultura del territorio, storia, arte, bellezza. Il mio progetto doveva essere divulgativo, ho creato DGexperience, ci ho messo la faccia e il mio modo di essere, con stile”.

Graziano, in vigna come alle serate appare sempre in giacca e cravatta, qual è il suo approccio al vino?

Giacca e cravatta non sono un vezzo estetico, nell’apparenza c’è il messaggio dell’importanza di quello che sto facendo. In dieci anni di attività il mio brand si è evoluto, nato con un core molto forte sul vino, ha trovato subito la sua cifra: la fusione del vino con l’arte a tutto campo. Che in un contesto come quello di Roma, museo a cielo aperto, ha trovato una sede privilegiata. L’idea di creare tour culturali non convenzionali con degustazione può sembrare un’esperienza apparentemente semplice, in realtà si è rivelata innovativa per i miei stessi partner dal momento che nessuno credeva si potesse portare gli italiani a fare cose nella loro stessa zona di residenza. Una scommessa vinta. L’obiettivo non era portare turisti in tour e fatturare, ma riportare la cultura al centro dell’attenzione degli italiani stessi. Portandoli la domenica mattina a riappropriarsi dei monumenti a un km da casa propria, in altre parole un’esperienza mista che arricchisce sia l’appassionato di cultura che quello di enogastronomia. Fin da subito ho scelto di non fare esperienze troppo verticali quanto piuttosto trasversali, non mi rivolgevo agli esaltati del vino capaci di analizzare tecnicamente ventiquattro annate senza però collegarle al territorio, alla storia e alla cultura di cui quel vino è espressione.

Come definisce il suo metodo?

Una parola abusata ma che rende bene il concetto è sinestesia. Non bevo Brunello di Montalcino e parlo di arte in Toscana, piuttosto mi chiedo quali sono le caratteristiche del Brunello di Montalcino, cosa rappresenta. A quel punto abbino un artista o un argomento che anche solo metaforicamente mi ricorda le caratteristiche del Brunello, la filosofia che quel vino incarna: la liaison è più stretta di quello che sembra.

Esempio pratico?

Il 24 gennaio 2025 sono stati 50 anni dal Köln Concert di Keith Jarrett, un concerto capolavoro che ha cambiato la storia del piano solo. Da ragazzo fantasticavo su come avrei celebrato quell’evento. L’occasione l’ha fornita la sala d’ascolto della VDM Sound, tra i miei partner speciali, dove si fa cultura del suono. Con il sound master Igor Fiorini “sommelier del suono”, creiamo percorsi sensoriali, masterclass che fondono ascolto musicale e degustazione del vino: la musica come cibo per la mente e l’anima, il vino (e il cibo che lo accompagna) quale arte tra le arti. In definitiva un’esperienza di piacevolezza totalizzante per pubblici che ricercano l’eccellenza, non “musica e vino”. Accade che in una città metropolitana stressata e difficile come Roma una magia del genere arrivi a toccare corde sopite e sciolga le persone. Che poi ci chiedono di ripeterla, ma nessuno dei nostri eventi si ripete o non sarebbero tali ovvero qualcosa di raro. È il caso ultimo dei vini unici di Adriana Tronca interprete di un inedito Pinot nero allevato in Abruzzo a 800 metri, al quale con Filippo Pica di Vinoteca Tempere ho voluto dedicare una verticale di 5 annate. Se replico la degustazione mensilmente nello stesso luogo con lo stesso taglio quella verticale non sarà più un evento, perciò non si ripeterà, le persone devono cogliere il senso della specialità di quel momento. Tornando al Köln Concert tenutosi in un contesto sbagliato con un pianoforte sbagliato, mi sono ispirato proponendo un vino siciliano osteggiato, uno zibibbo secco che nemmeno in Sicilia accettavano in quanto storicamente considerato vino dolce. In realtà un vino duale: naso aromatico, morbido, armonico, orecchiabile ovvero molto accessibile, dall’altra l’acidità di base, la struttura aulica pari alla levatura del famoso concerto tedesco, che dona persistenza, longevità al vino come al concerto stesso nel tempo. L’insieme di piacevolezza e nerbo crea il capolavoro: ogni capolavoro dell’arte ha una doppia matrice.

Lavora sempre in questo modo parallelo?

Lo faccio ogni giorno, ogni ora della mia vita, è la mia missione, una fatica enorme. Lavoro il triplo e guadagno un terzo ma ogni attimo della mia vita faccio quello che mi piace e questo è impagabile. Fuori c’è tanta difficoltà, brutalità e anche rassegnazione. Ma se il tuo progetto è riportare la cultura, la bellezza, la qualità al centro della discussione e lo fai ogni volta, sarà faticoso ma lascia un segno nelle persone. A 48 anni come me oggi devi farlo, devi dare il tuo contributo. La nostra generazione rappresenta la classe dirigente di questo mondo, se seguiamo solo il corso del fiume non siamo partecipi del cambiamento, se abbiamo un’idea e ci crediamo veramente dobbiamo pur risalire quel fiume. Il valore aggiunto è che se ogni anno incontro mille, duemila persone, ventenni o sessantenni, sto seminando, sto dicendo che una certa qualità è possibile. Se convinci le persone che il mondo non è tutto potere e sopraffazione ma che c’è anche grazia nell’essere e nell’agire, stai lasciando un messaggio che magari le persone riportano nel proprio quotidiano. Sono per la trasversalità dei linguaggi, dico loro abbeveratevi di bellezza ogni momento, qualsiasi occasione è buona.

Come ricerca le storie (di vino) da raccontare?

Un po’ le cerco io e un po’ loro cercano me, ma non è facile. Spesso le stesse aziende enologiche non credono in questo tipo di approccio, si sono piegate all’idea che per vendere il vino si debbano trovare due, tre motivi di successo e cavalcarli, non credono in un percorso più orientato alla cultura. Sono convinte che il vino sia un prodotto da vendere in fiera e tramite distribuzione. Vero, ma se il vino manca del racconto si fa fatica a capire perché comprare un Primitivo di Manduria anziché un altro, a volte il grande pubblico non fa differenza tra un Amarone e un Barolo, li si intende come vini rossi importanti, costosi, di rappresentanza ma non se ne conosce la differenza. Il vino va riportato nel racconto, le sue sfumature devono poter essere toccate con mano. Come diceva Mario Soldati, se conosco la storia , le idee di un autore, potrò capire meglio la sua opera. Se leggo solo l’opera, ovvero bevo il vino, posso averne piacevolezza ma non sarà tutto. Devo dire di essere fortunato, collaboro con aziende che hanno già un nome come Cantine Tempere, Riccardi Reale, Vigna di More, Sancarraro, I Loghi, Biasiotto tra i produttori di prosecco più importanti d’Italia, o come la giovane Borgo del Baccano, aziende che lavorano in modo etico e che quando fai proposte del genere ti dicono “sì perché il mio vino raccontato in quel contesto è veramente a casa sua”.

Come interpreta la controtendenza degli spumanti in un mercato alle prese con mille sfide di natura economica, geopolitica e sociale, non ultima la tendenza a un consumo moderato di alcol?

I vini spumanti sono da sempre espressione di fascino e appeal, farei diventare le bollicine il cavallo di Troia per tornare a parlare di vino e territorio. Metodo classico, metodo Charmat e metodo ancestrale si portano dietro storie straordinarie, l’atout per riportare il discorso sul vino nella sua dimensione naturale senza scorciatoie, senza fretta. Il vino per me è agricoltura, storia, cultura, un fenomeno lento. L’uva impiega un anno per maturare e per un’azienda può a volte volerci un secolo per arrivare alla formula perfetta del suo vino o spumante, al contrario la società di oggi vuole non solo velocità ma cambiamenti costanti. I vini spumanti sono vini speciali, complessi, come diceva Ernest Hemingway un incredibile inno all’ingegno umano. Nella grande isteria messa in campo negli ultimi tempi tra barrique si o no, naturale e convenzionale, adesso il dealcolato, i limiti di consumo alla guida, i dazi internazionali e i giovani che non bevono vino mi sembra tutto finalizzato a mantenere alta l’attenzione. Il rischio è che a parlare sempre di qualcosa di nuovo si finisce per danneggiare il fenomeno stesso. È come una coppia che ogni giorno si interroga sulla propria relazione, a furia di cercare cose nuove finisce per non godersi quello che ha e di separarsi. Secondo me il mondo del vino avrebbe bisogno di imparare dalla sua stessa natura slow e non cercare ogni 6 mesi un nuovo motivo di dibattito come fanno i tabloid che cercano ogni giorno la notizia sulla coppia famosa.


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